Il punto sulla gender equality in Italia: pubblicato il Gender Gap Report 2022

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Per l’ottavo anno consecutivo, l’Osservatorio JobPricing ha presentato il proprio “Gender Gap Report – Mercato del lavoro, retribuzioni e differenze di genere in Italia”, redatto in collaborazione con LHH Recruitment Solutions e IDEM | Mind The Gap, volto a contribuire attivamente al fondamentale dibattito sul tema dell’equità di genere nel mercato del lavoro italiano. Le osservazioni da cui origina il report provengono prevalentemente dal ricco database di JobPricing, costituito da circa 600mila profili retributivi relativi a lavoratori dipendenti di aziende private, raccolti durante il periodo 2014-2022.

La crucialità dell’equità di genere è stata più volte sottolineata a livello internazionale e italiano: si pensi all’inserimento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze” all’interno del framework dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, alla Strategia europea per la parità di genere avviata dalla Commissione Europea presentata nel marzo del 2020 e che ha portato alla nascita del progetto “Gender Equality Strategy 2020-2025”, e alla “Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021-2026” promossa dal Dipartimento delle Pari Opportunità e che si inserisce tra gli interventi previsti per l’attuazione PNRR. La Strategia, che si pone l’obiettivo generale di guadagnare cinque punti nel Gender Equality Index dell’EIGE ed è articolata in cinque priorità (lavoro, reddito, competenze, tempo e potere), definisce non solo gli interventi da attuare, ma anche i relativi indicatori volti a misurare i principali aspetti della diseguaglianza di genere e obiettivi specifici e misurabili da raggiungere. In tal senso, risalta subito un primo intervento concreto come la L.162/2021, che ha portato aggiornamenti in materia di diritto antidiscriminatorio e introdotto un processo di certificazione di parità di genere nelle organizzazioni, con conseguenti controlli e sanzioni – per le realtà non compliant – e premialità – per le aziende virtuose.

Raggiungere l’uguaglianza fra i generi e colmare il gap tuttora persistente non risponde solamente ad esigenze etiche e di giustizia sociale, ma anche di intelligenza economica: da questa prospettiva, chiudere il divario di genere significherebbe di fatto accorciare la disuguaglianza e conseguentemente migliorare le condizioni di crescita economica e produttività, in termini di PIL e di tassi di occupazione, di crescita dell’innovazione e miglioramento delle performance finanziarie.

Nonostante le sollecitazioni a livello europeo e internazionale, l’Italia ancora oggi arranca in termini di gender equality: negli ultimi 5 anni l’Italia è tra i Paesi cresciuti più lentamente rispetto all’indice generale “Gender Equality Index” proposto dall’EIGE – in particolare, i miglioramenti del nostro Paese sono complessivamente inferiori rispetto alla media dei Paesi del sud Europa, collocandosi, come nel 2021, al 14° posto della classifica europea. Non va meglio se si considera il “Global Gender Gap Report” sviluppato dal World Economic Forum: in questo caso l’Italia occupa la 63° posizione, alle spalle dello Zambia e davanti alla Tanzania. In entrambi i casi, la Penisola è particolarmente colpita dagli scarsi punteggi nelle dimensioni del lavoro, dell’impiego del tempo, del potere e della partecipazione sociale, mentre performance migliori sono registrate nell’ambito della salute e dell’empowerment politico.

Per agire efficacemente nel colmare il divario di genere che ci allontana dai Paesi europei maggiormente avanzati è necessario intervenire ben prima dell’ingresso sul mercato del lavoro, concentrando l’attenzione già nella fase scolastica, dove le diseguaglianze iniziano a sorgere e a radicarsi. In Italia esiste un gap a sfavore degli uomini nell’istruzione a livello generale (le donne, infatti, sono in media più istruite degli uomini e registrano performance migliori, a tutti i livelli), mentre il gap si ribalta se si considerano i percorsi di studio scelti da ragazze e ragazzi. È in effetti la mancanza di studentesse nelle STEM e nei sempre più importanti percorsi di formazione in ICTs che determina un forte divario tra le/i giovani – divario che si riflette direttamente sul mercato del lavoro, considerando l’impatto della Quarta rivoluzione industriale e della digital economy, con la conseguente forte richiesta di persone laureate in corsi STEM. In questo senso, non sorprende che, se da un lato il tasso di occupazione femminile è di molto cresciuto negli ultimi trent’anni, dall’altro continua a prevalere il fenomeno della segregazione occupazionale, che vede uomini e donne seguire differenti binari di carriera, con quest’ultime relegate in posizioni meno prestigiose (segregazione verticale) e impegnate in professioni che riproducono gli stereotipi di genere, con una differente concentrazione del genere femminile e maschile in determinati ambiti professionali (segregazione orizzontale).

Prima dell’avvento della pandemia da Covid-19, l’occupazione femminile toccava il 50%, contro il 68% di quella maschile, mentre successivamente al 2019 il tasso di inattività femminile è aumentato più ripidamente di quello maschile, facendo apertamente parlare di “she-cession” con le donne che hanno risentito più duramente la pandemia rispetto agli uomini – proprio a causa della segregazione occupazionale – e che non hanno ancora recuperato i livelli di occupazione del 2019. Risulta quindi evidente il gender gap: le donne hanno un tasso di occupazione più basso, trovano meno lavoro e tendenzialmente sono più soggette a fuoriuscire dal mercato del lavoro stesso.

Questo fenomeno colpisce maggiormente le donne con livelli di istruzione più bassi (tra le persone occupate non laureate, solo 38,1% è donna, contro il 61,9% di uomini), mentre le donne occupate laureate sono in numero maggiore rispetto agli uomini laureati (56,3% contro 43,7%). Un ulteriore tassello riguarda gli individui che prestano lavoro a tempo parziale: il ricorso al part-time non origina solamente da una scelta volontaria, bensì è stato nel corso degli anni sempre più spesso una scelta delle imprese; secondo ISTAT il part-time involontario viene imposto maggiormente alle donne e, in generale, è più diffuso nei settori ad alta concentrazione femminile, come quello dei servizi alle famiglie. Nuovamente, i ruoli e gli stereotipi di genere hanno un fortissimo impatto su questa prassi, con le donne maggiormente (o esclusivamente) impegnate nei compiti di cura e di lavoro domestico (l’Italia si colloca al 4° posto tra i paesi OECD con un gap sul tempo di lavoro di cura più elevato: le donne italiane che passano in media oltre 5 ore al giorno a occuparsi del lavoro di cura, quando gli uomini arrivano a poco più di 2).

Considerando il fenomeno della segregazione verticale, ossia la sottorappresentazione ai più alti livelli dirigenziali e manageriali, il gap risulta particolarmente evidente: le donne rappresentano solamente il 17% del totale delle posizioni dirigenziali nel settore privato (percentuale che sale al 33% se si considera tutto il mercato del lavoro) e il 52% delle posizioni impiegatizie (57% se si considera il mercato nella sua totalità). Inoltre, nel settore privato, la distribuzione di genere tra gli inquadramenti differisce sostanzialmente in base alla funzione di appartenenza: le donne manager (dirigenti e quadro) sono più diffuse nelle funzioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, Auditing, Compliance, Risk management, Risorse Umane e Organizzazione, Legale, Marketing e Comunicazione. Prendendo in considerazione le posizioni apicali, si deve ricordare come, con la Legge Golfo-Mosca prima, e con la L. 160/2019 poi, il legislatore abbia voluto assicurare una presenza bilanciata di entrambi i generi negli organi di amministrazione e controllo delle imprese quotate. Ebbene, per effetto della normativa, nel 2021 si è raggiunta la percentuale record di donne nei CdA, arrivando al 41,2%. Un ottimo risultato che, però, cela un dato meno confortante: la larga maggioranza delle donne ricopre ruoli non esecutivi, mentre la presenza femminile nei ruoli esecutivi è estremamente ridotta (il 22% circa sul totale). Tra queste ultime, inoltre, si deve sottolineare come le amministratrici delegate rappresentino solo il 5%, dato che evidenzia l’esistenza di un persistente soffitto di cristallo.

Infine, nonostante l’esistenza di una serie di caratteristiche – individuali e aziendali – che possono spiegare il motivo per cui di fatto i salari, in media, siano divergenti, analisi tecniche più approfondite dimostrano come spesso il differenziale salariale esistente sia riconducibile a mera discriminazione.

Considerando il gender pay gap nei settori di appartenenza, il nostro Paese si posiziona bene a livello europeo per quanto riguarda il settore pubblico (4,1%), mentre il pay gap orario nel settore privato è molto più elevato (16,5%). L’Osservatorio JobPricing ha registrato per il 2021 un pay gap calcolato sulla RAL annuale in Full Time Equivalent (FTE) pari al 11,2%, dato che arriva al 12,2% considerando la Retribuzione Globale Annua (RGA). In termini monetari, significa un gap di 3.500 € lordi sulla RAL e di circa 3.800 € sulla RGA, con il divario retributivo che si è ampliato di 1 punto per la RAL e di 0,9 punti per la RGA rispetto al 2020. Detto più prosaicamente, è come se le lavoratrici italiane iniziassero a percepire uno stipendio l’11 di febbraio, nonostante lavorino regolarmente dal 1° gennaio. Il divario retributivo di genere cresce in funzione del livello di istruzione raggiunto, raggiungendo i valori più elevati tra uomini e donne in possesso di un master di I o di II livello, mentre ha un andamento direttamente proporzionale con l’aumentare dell’età anagrafica: tra i lavoratori più giovani, uomini e donne percepiscono lo stesso stipendio, ma al crescere dell’età il gap cresce arrivando al 17% in sfavore delle lavoratrici con oltre 55 anni. Il pay gap maggiore, poi, si registra nella industry della consulenza legale, fiscale, amministrativa e gestionale (21,9%), mentre tra le famiglie professionali il pay gap più alto è osservabile nell’area delle vendite (26,2% in meno); al contrario si registra un pay gap a favore delle donne nell’area acquisti, logistica e supply chain (3% in più).

Ulteriori dati sconfortanti provengono dall’analisi delle percezioni delle lavoratrici: se si considera l’ambito lavorativo tech, si è rilevato che, a parità di caratteristiche, l’84% delle donne ritiene che un uomo abbia più possibilità di essere promosso, e che, in caso di promozione, agli uomini vengano offerti incrementi retributivi più alti di quelli delle lavoratrici. Infine, le donne sono maggiormente insoddisfatte degli uomini dei loro pacchetti retributivi (gap di 0,6 punti a sfavore delle lavoratrici), soprattutto per quanto riguarda le logiche di trasparenza nei riconoscimenti di merito, e rispetto agli uomini le lavoratrici risultano avere diverse priorità, considerando più importante la flessibilità oraria (73% delle lavoratrici lo considera “molto importante” contro il 58% degli uomini) e le relazioni interpersonali con capo e colleghi nella scelta di un posto di lavoro (è “molto importante” per l’80% delle donne e per il 72% dei lavoratori).

In conclusione, come si è avuto modo di vedere, sebbene timidi passi in avanti siano stati fatti nel corso degli anni, non si può annunciare un sostanziale miglioramento delle condizioni femminili nel mercato del lavoro – complice la pandemia che ha avuto un impatto maggiormente negativo su chi già si trovava in posizioni più vulnerabili e precarie, come le donne. Il tutto rientra in un trend non solo italiano, ma europeo e globale di rallentamento nella chiusura del gap di genere, e si calcola che si impiegheranno 132 anni per colmare il divario di genere a livello globale. Per poter ottenere risultati concreti è necessaria un’azione condivisa da parte di tutti i livelli della società civile (famiglie, scuole, università e imprese). In particolare, proprio quest’ultime possono essere promotrici del cambiamento attraverso iniziative interne di formazione e sensibilizzazione, l’introduzione o la modifica di policy in senso inclusivo e la misurazione puntuale del fenomeno del gender gap. Proprio il tema della misurazione è decisivo, in quanto rende tangibile la discriminazione e permette di trasformare il suo superamento in un obiettivo strategico “azionabile” con i consueti strumenti di gestione manageriale. In questo senso non si può che accogliere con grande favore iniziative come la Certificazione della Parità di Genere sui luoghi di lavoro, e il suo derivante strumento di misurazione dettato dalle linee guida UNI/PDR 125:2022 o dagli strumenti di misurazione proposti da IDEM | Mind The Gap – approcci che hanno il potenziale di cambiare le cose, se chi ricopre posizioni di leadership all’interno delle imprese vorrà cogliere l’opportunità di farlo veramente.

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