La parità di genere è inserita tra i principali obiettivi da tutte le principali istituzioni internazionali, come ONU e Unione Europea, e nazionali, basti pensare al fatto che la parità di genere è uno dei tre obiettivi trasversali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. IDEM nasce nel 2020 con la missione di dare un contributo effettivo alla riduzione delle diseguaglianze di genere nelle organizzazioni, attraverso l’IDEM Index, una metrica specifica, scientificamente validata, in grado di rappresentare il livello effettivo di gender equality.
Alcuni dati sulla parità di genere nel mondo del lavoro
La direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio volta a rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza delle retribuzioni e meccanismi esecutivi, proposta nel marzo 2021, è stata votata a grande maggioranza nei giorni scorsi.
La direttiva sulla trasparenza retributiva (COM/2021/93) rientra in quella parte di lavoro svolto dall’UE per sostenere gli Stati membri con normative, fondi e strumenti tesi a coordinare meglio le politiche nazionali, promuovere l’occupazione, migliorare le condizioni di vita e di lavoro, fornire una protezione sociale adeguata e combattere l’esclusione sociale.
Il Parlamento europeo, infatti, si occupa del principio di parità di trattamento da più di 40 anni, e il concetto è stato ribadito più volte negli anni. Più di recente, la direttiva 2006/54/CE ha ribadito il principio in questione, che costituisce un aspetto importante del principio della parità di trattamento fra uomini e donne. L’articolo 4 della direttiva, in relazione alla parità retributiva, sancisce chiaramente un divieto di discriminazione: “per quanto riguarda uno stesso lavoro o un lavoro al quale è attribuito un valore uguale, occorre eliminare la discriminazione diretta e indiretta basata sul sesso e concernente un qualunque aspetto o condizione delle retribuzioni. In particolare, qualora si utilizzi un sistema di classificazione professionale per determinare le retribuzioni, questo deve basarsi su principi comuni per il personale maschile e per quello femminile ed essere elaborato in modo da eliminare le discriminazioni fondate sul sesso”.
A seguire, una relazione della Commissione al Parlamento europeo e al Consiglio – la COM(2013) 861 definitiva – ha sottolineato come l’attuazione del principio di parità retributiva sia ostacolata dalla mancanza di trasparenza dei sistemi retributivi, dalla mancanza di certezza del diritto sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali. Tra questi, l’indisponibilità delle informazioni di cui le lavoratrici e i lavoratori hanno bisogno per intentare una causa, ovvero le informazioni sulle retribuzioni del personale che svolge lo stesso lavoro o un lavoro di pari valore.
Una successiva Raccomandazione del 2014 ribadisce quanto sia opportuno concentrarsi su un elemento essenziale dell’applicazione efficace del principio della parità retributiva: la trasparenza delle categorie salariali. Una maggiore trasparenza salariale all’interno delle organizzazioni potrebbe rivelare pregiudizi e discriminazioni di genere, consentendo così a dipendenti, datori di lavoro[1] e parti sociali di intervenire adeguatamente per ripristinare il rispetto della parità retributiva.
Secondo questa linea, la trasparenza retributiva consentirebbe alle lavoratrici e ai lavoratori di individuare e comprovare possibili discriminazioni basate sul sesso; potrebbe inoltre mettere in luce i pregiudizi di genere nei sistemi retributivi e di inquadramento professionale che non valorizzano il lavoro di donne e uomini in modo paritario e neutro sotto il profilo del genere, o che non mettono in risalto alcune competenze professionali che sono per lo più considerate qualità femminili. E poiché tali pregiudizi sono spesso inconsci, la trasparenza retributiva può contribuire a sensibilizzare i datori di lavoro sulla questione e aiutarli a individuare disparità retributive discriminatorie basate sul genere, che non possono essere spiegate da validi fattori discrezionali e che sono spesso involontarie.
In assenza di una definizione del concetto di lavoro di pari valore e di criteri di valutazione chiari che permettano di paragonare diverse posizioni, le vittime di discriminazioni retributive incontrano notevoli ostacoli nel far valere i propri diritti in tribunale.
È per questo che la Direttiva interviene su tre assi fondamentali:
- introduzione di sistemi di valutazione delle posizioni;
- introduzione di sistemi di reportistica;
- inversione dell’onere della prova.
Introduzione di sistemi di valutazione delle posizioni. Secondo il Parlamento Europeo, sistemi di valutazione e classificazione del lavoro neutri sotto il profilo del genere contribuiscono a creare un sistema salariale trasparente: misurando e paragonando mansioni di contenuto diverso ma di valore equivalente, questi sistemi permettono di individuare discriminazioni retributive indirette dovute a una sottovalutazione dei posti ricoperti tipicamente da donne e permettono quindi di sostenere il principio del lavoro di pari valore. L’articolo 4 della direttiva impone quindi agli Stati membri di stabilire strumenti o metodologie per valutare e raffrontare il valore del lavoro, rispetto a una serie di criteri oggettivi che includono i requisiti professionali, di istruzione e di formazione, le competenze, l’impegno e le responsabilità, il lavoro svolto e la natura dei compiti assegnati. Ciò fornisce la base per valutare se le lavoratrici e i lavoratori si trovino in una situazione analoga e svolgano un lavoro di pari valore e aiuterà i datori di lavoro a classificare e remunerare meglio le posizioni lavorative sulla base di criteri oggettivi e neutri sotto il profilo del genere; questa disposizione richiama quanto introdotto dalla direttiva 2006/54/CE, secondo cui, qualora si utilizzino sistemi di valutazione e classificazione professionale per determinare la retribuzione, essi dovrebbero basarsi sugli stessi criteri, neutri sotto il profilo del genere per uomini e donne, al fine di escludere qualsiasi discriminazione fondata sul sesso. Ciò significa che i criteri per valutare il valore di un lavoro o di una posizione devono essere descritti e definiti in modo obiettivo e neutrale, applicabili sia ai posti di lavoro degli uomini che a quelli delle donne. Sempre su questa linea è l’articolo 6 della direttiva, che sancisce la trasparenza della determinazione delle retribuzioni e dei criteri per l’avanzamento di carriera. La norma prevede che il datore di lavoro renda facilmente accessibile al proprio personale dipendente una descrizione dei criteri utilizzati per determinare i livelli retributivi e l’avanzamento di carriera delle lavoratrici e dei lavoratori.
Introduzione di sistemi di reportistica. L’articolo 8 della direttiva COM/2021/93 impone ai datori di lavoro con almeno 250 dipendenti di rendere pubblicamente disponibili e accessibili determinate informazioni quali il divario retributivo tra lavoratrici e lavoratori nella loro organizzazione, non solo rispetto lo stipendio base, ma anche per quanto riguarda le componenti complementari o variabili. La pubblicazione di queste informazioni consentirebbe, secondo il Parlamento europeo, un certo confronto tra datori di lavoro, il che incentiverebbe gli stessi a prevenire potenziali divari retributivi, stimolerebbe il dibattito sulla parità retributiva e stimolerebbe ad agire. I datori di lavoro dovrebbero fornire tali informazioni a tutto il personale e ai loro rappresentanti, mentre l’ispettorato del lavoro e gli organismi per la parità dovrebbero poter ottenere le informazioni su richiesta. Sulla base delle informazioni fornite, le lavoratrici e i lavoratori e i loro rappresentanti, gli ispettorati del lavoro e gli organismi per la parità hanno il diritto di chiedere al datore di lavoro chiarimenti e dettagli in merito alle informazioni pubblicate, comprese spiegazioni su eventuali disparità retributive di genere. Il datore di lavoro è tenuto a rispondere a tali richieste entro un termine ragionevole fornendo una risposta motivata. Qualora le disparità retributive di genere non siano giustificate da fattori oggettivi e neutri sotto il profilo del genere, il datore di lavoro è tenuto a porre rimedio alla situazione in stretta collaborazione con i rappresentanti dei lavoratori e delle lavoratrici, l’ispettorato del lavoro e/o l’organismo per la parità.
Inversione dell’onere della prova. L’articolo 16 della direttiva sancisce il trasferimento dell’onere della prova. La norma prevede infatti che spetti alla parte convenuta (il datore di lavoro) provare l’insussistenza della discriminazione – diretta o indiretta – in relazione alla retribuzione ove il lavoratore o la lavoratrice che si ritenga lesa dalla mancata osservanza nei propri confronti del principio della parità retributiva abbia prodotto dinanzi ad un organo giurisdizionale, o altro organo competente, elementi di fatto in base ai quali si possa presumere che ci sia stata discriminazione diretta o indiretta. Il rafforzamento del trasferimento dell’onere della prova non solo dovrebbe agevolare le lavoratrici e i lavoratori nell’esercizio del loro diritto alla parità retributiva, ma dovrebbe fornire anche un ulteriore incentivo per i datori di lavoro a rispettare i loro obblighi in materia di trasparenza.
Come si inserisce nel nostro Paese
La Direttiva approvata il 30 marzo 2023 dovrà ora essere formalmente adottata dagli Stati membri e recepita nel diritto nazionale entro due anni dall’entrata in vigore.
Il nostro Paese risulta comparativamente uno di quelli più colpiti dal c.d. “gender gap” nei luoghi di lavoro: secondo il Global Gender Gap Report[2], l’indice italiano relativo alla partecipazione ed alle opportunità economiche delle donne (60,3/100) ci posiziona al 110° posto su 147 paesi. La capacità di guadagno delle donne (58,1/100), la parità salariale (56,7/100) e le possibilità di carriera in politica, nel pubblico e nel privato (31,9/100) ci vedono molto distanti dalla parità (100/100). Su tutte, quella particolarmente critica risulta essere la situazione del “gender pay gap” (il differenziale retributivo a parità di mansioni fra donne e uomini): l’Osservatorio JobPricing, che monitora il settore privato (ad esclusione di sanità e istruzione private), per l’anno 2022 ha registrato un pay gap calcolato sulla RAL annuale in Full Time Equivalent (FTE) pari all’8,7%, che arriva al 9,6% considerando la RGA.
La situazione appena delineata prende una piega paradossale alla luce delle disposizioni normative, italiane ed europee, che prevedono la parità di retribuzione a parità di lavoro. Il codice delle pari opportunità sancisce espressamente il divieto di discriminazione retributiva, e lo stesso fa la normativa comunitaria, come enucleato nel paragrafo precedente e come sancito dall’art. 157 del TFUE, che dispone che «Ciascuno Stato membro assicura l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra personale di sesso maschile e di sesso femminile per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore».
Non solo, la L. 162/2021 ha rivisto e ampliato il perimetro di applicazione dell’obbligo di redazione del “rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile” previsto nel Codice delle pari opportunità (D.Lgs. 198/2006). Secondo quanto previsto, le aziende con più di 50 dipendenti devono predisporre a cadenza biennale il Rapporto sulla situazione del personale maschile e femminile. Tale rapporto, che deve essere inviato al Ministero del lavoro, alle organizzazioni sindacali, al Consigliere regionale di parità e al Dipartimento delle pari opportunità della Presidenza del Consiglio dei ministri, deve indicare una serie di informazioni organizzative e retributive di tutto il personale dipendente.
Uno dei motivi per cui sono stati però compiuti così pochi progressi per quanto riguarda il rispetto del diritto fondamentale all’equità retributiva è evidenziato dal Comitato di esperti sull’applicazione delle convenzioni e delle raccomandazioni (2007): “le difficoltà nell’applicazione della Convenzione in diritto e nella pratica derivano in particolare da una mancata comprensione della portata e delle implicazioni del concetto di “lavoro di pari valore”. A seguito della valutazione retrospettiva effettuata dalla Commissione nel 2020 è emerso poi che il diritto alla parità retributiva non è applicato in modo adeguato né attuato nella pratica e in molti Stati membri manca la trasparenza retributiva.
Per rispettare il diritto alla parità retributiva tra il personale di sesso maschile e quello di sesso femminile, i datori di lavoro, una volta recepita la direttiva, dovranno quindi disporre di meccanismi di determinazione delle retribuzioni o strutture retributive che assicurino che se esistono differenze retributive tra lavoratrici e lavoratori che svolgono uno stesso lavoro o un lavoro di pari valore, queste differenze possano essere giustificate da fattori neutri dal punto di vista del genere. Tali strutture retributive dovrebbero consentire di confrontare il valore dei diversi posti di lavoro all’interno della stessa struttura organizzativa. In linea con la giurisprudenza della Corte, il valore del lavoro dovrebbe essere valutato e paragonato sulla base di criteri oggettivi quali i requisiti professionali e in materia di istruzione e formazione, le competenze, l’impegno e le responsabilità, il lavoro svolto e la natura dei compiti assegnati
Lo strumento nelle mani delle organizzazioni è la job evaluation, il cui obiettivo è valutare, sulla base di criteri comuni, le caratteristiche dei ruoli all’interno di un’organizzazione, al fine di stabilirne il valore relativo[3]. In termini poi di parità retributiva per lavori di pari valore, questo metodo è in grado di assicurare che la retribuzione sia effettivamente legata all’importanza del lavoro, e non al genere della persona che ricopre il ruolo.
La job evaluation, infatti, è una metodologia di analisi organizzativa, che consente di determinare il «valore» dei ruoli di un’organizzazione sulla base di criteri «oggettivi» che descrivono il contributo al raggiungimento degli obiettivi aziendali: lo scopo è quello di attribuire un «peso» a ciascuna posizione – a prescindere dalla persona (e dal genere della persona) che la ricopre – in modo da rendere possibile un confronto fra ruoli, anche a livello inter-funzionale.
Le metodologie di pesatura si dividono in due macrocategorie: metodi globali e metodi analitici. La prima confronta i ruoli e li classifica in base ai requisiti di base del lavoro, senza effettuare un’analisi dettagliata del loro contenuto ma valorizzando l’appartenenza ad una famiglia professionale (ad esempio Manager, Middle Manager, Specialist e Operative). I metodi analitici consentono invece di esaminare, valutare e confrontare sistematicamente tutte le esigenze di tutti i posti di lavoro di un’organizzazione, utilizzando criteri comuni, precisi e dettagliati. Il metodo analitico basato su punti e fattori, è riconosciuto come il metodo di valutazione più appropriato ai fini del pay equity perché, a differenza del metodo globale, permette di entrare in un livello di dettaglio più profondo, consentendo di portare alla luce eventuali pregiudizi e stereotipi legati al ruolo e alla persona che lo ricopre.
Le strategie di pesatura analitiche si affidano a un set di indicatori prestabiliti, a ciascuno dei quali viene associata una scala di punteggi. Dal punteggio complessivamente ottenuto dalla pesatura di ogni posizione ne deriva una classifica delle posizioni per ordine di importanza (dal punteggio più alto a quello più basso). Questa classifica consente non solo di raggruppare i ruoli in fasce omogenee, ma anche di evidenziare situazioni particolari. Per leggere in maniera analitica l’organizzazione, attraverso le fasce omogenee create con la job evaluation, è bene chiedersi:
- A parità di appartenenza ad una fascia omogenea, le retribuzioni dei diversi ruoli sono simili o ci sono scostamenti significativi?
- A parità di posizione le retribuzioni sono allineate? In caso negativo, l’organizzazione è in grado di spiegare perché?
- Se alcuni individui hanno trattamenti non allineati al modello di job evaluation disegnato dall’organizzazione, questa è in grado di spiegare perché?
Grazie a questo strumento è quindi possibile analizzare nel dettaglio l’organizzazione per strutturare poi politiche retributive, e più in generale politiche del personale (formazione, sviluppo, etc.), in funzione del peso relativo delle posizioni organizzative e quindi secondo un principio di equità.
Questo ultimo aspetto costituisce un asset fondamentale per il raggiungimento dell’uguaglianza di genere all’interno delle organizzazioni: la valutazione del valore, e dei corrispondenti requisiti, dei diversi lavori sulla base di criteri comuni e oggettivi contribuisce a determinare sistemi retributivi più trasparenti, equi ed efficienti, migliorando le politiche retributive aziendali e le procedure di reclutamento e selezione.
[1] Per fluidità del testo, e come previsto anche dalle linee guida sul linguaggio inclusivo del Parlamento Europeo, ci si riferisce in questo contesto al “datore di lavoro” come funzione in astratto, a prescindere dal genere della persona che la ricopre.
[2] Global Gender Gap Report 2022. https://www.weforum.org/reports/global-gender-gap-report-2022
[3] Per una valutazione obiettiva ed equa dei lavori, tuttavia, è doveroso ricordare che i metodi di valutazione del lavoro dovrebbero essere liberi da pregiudizi di genere; in caso contrario, le dimensioni chiave dei lavori tipicamente svolti dalle donne rischiano di essere ignorate o valutate inferiori a quelle tipicamente svolte dagli uomini. Ciò si traduce nella perpetrazione della sottovalutazione dei posti di lavoro delle donne e nel rafforzamento del divario retributivo di genere. “Promoting Equity: gender-neutral job evaluation for equal pay. A step-by-step guide”. https://www.ilo.org/declaration/info/publications/eliminationofdiscrimination/WCMS_122372/lang–en/index.htm
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Autore: JobPricing