La parità di genere è inserita tra i principali obiettivi da tutte le principali istituzioni internazionali, come ONU e Unione Europea, e nazionali, basti pensare al fatto che la parità di genere è uno dei tre obiettivi trasversali del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. IDEM nasce nel 2020 con la missione di dare un contributo effettivo alla riduzione delle diseguaglianze di genere nelle organizzazioni, attraverso l’IDEM Index, una metrica specifica, scientificamente validata, in grado di rappresentare il livello effettivo di gender equality.
Alcuni dati sulla parità di genere nel mondo del lavoro
Per il nono anno consecutivo, l’Osservatorio JobPricing ha presentato il proprio “Gender Gap Report – Mercato del lavoro, retribuzioni e differenze di genere in Italia”, redatto in collaborazione con LHH Recruitment Solutions e IDEM | Mind The Gap, volto a contribuire concretamente alla conversazione sul tema dell’equità di genere nel mercato del lavoro italiano. Le osservazioni da cui origina il report provengono prevalentemente dal ricco database di JobPricing, costituito da circa 600mila osservazioni qualificate relative a lavoratori subordinati del settore privato, raccolte a partire dal 2014.
La crucialità del raggiungimento dell’eguaglianza di genere è stata più volte ribadita a livello internazionale e italiano: si pensi all’inserimento dell’Obiettivo di sviluppo sostenibile “Raggiungere l’uguaglianza di genere e l’empowerment di tutte le donne e le ragazze” all’interno del framework dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, alla Strategia europea per la parità di genere avviata dalla Commissione Europea presentata nel marzo del 2020 e che ha portato alla nascita del progetto “Gender Equality Strategy 2020-2025”, e alla “Strategia Nazionale per la Parità di Genere 2021-2026” promossa dal Dipartimento delle Pari Opportunità e che si inserisce tra gli interventi previsti per l’attuazione PNRR. Riguardo quest’ultimo punto, risalta subito un primo intervento concreto come la L.162/2021, che ha portato aggiornamenti in materia di diritto antidiscriminatorio e introdotto un processo di certificazione di parità di genere nelle organizzazioni, con conseguenti e premialità per le aziende virtuose. Successivamente, il DPCM 152/2022 ha provveduto a definire i parametri per il conseguimento della certificazione della parità di genere, richiamando lo schema dei KPIs previsti dalla Prassi di riferimento UNI/PdR 125:2022. Tra gli interventi più recenti a livello europeo, invece, troviamo la Direttiva UE n. 2023/970 che, approvata nella primavera scorsa, svolge un ruolo preminente nel rafforzare l’applicazione del principio della parità di retribuzione tra uomini e donne per lo stesso lavoro o per un lavoro di pari valore attraverso la trasparenza retributiva e meccanismi esecutivi, intervenendo su tre direttrici principali, ovvero l’introduzione di sistemi di valutazione delle posizioni, l’introduzione di sistemi di reportistica e l’inversione dell’onere probatorio. Tale Direttiva, che dovrà essere recepita dagli ordinamenti degli Stati membri entro il 2026, nasce da uno sforzo continuativo sui temi del gender pay gap a livello europeo, con la Commissione impegnata in tal senso già nel 2013 – si pensi alla COM(2013) 861 definitiva, che sottolineava come l’attuazione del principio di parità retributiva fosse ostacolato dalla mancanza di trasparenza dei sistemi retributivi, dalla mancanza di certezza del diritto sul concetto di lavoro di pari valore e da ostacoli procedurali. Grazie a questo strumento, che introduce l’obbligo per i datori di lavoro di fornire le informazioni al personale dipendente sulle retribuzioni ed intervenire sui gap retributivi superiori al 5%, si potrnno efficacemente individuare discriminazioni in termini di retribuzione basate sul genere, prevedendo altresì il diritto al risarcimento per le vittime di discriminazione retributiva.
Ma, nonostante gli stimoli a livello europeo e internazionale, e i passi in avanti fatti negli anni, ancora oggi l’Italia arranca in termini di gender equality. Rispetto all’indice generale “Gender Equality Index” proposto dall’European Institute for Gender Equality (EIGE) e che si concentra sui 27 Paesi appartenenti all’Unione Europea, l’Italia si colloca a metà classifica (13° posizione), con una performance complessiva inferiore alla media europea di 2 punti e con l’ultima posizione in UE per quanto riguarda la dimensione lavorativa (8,8 punti di divario rispetto alla media dei Paesi UE), sia in termini di partecipazione al mercato del lavoro che in termini di segregazione e qualità del lavoro – gli indicatori rilevati dall’EIGE in questa dimensione. Considerando invece l’edizione 2023 del Global Gender Gap Report, redatto dal World Economic Forum e che rileva i dati di 146 Paesi in tutto il mondo, l’Italia occupa la 22° posizione a livello europeo e la 79° a livello globale. Anche in questo caso, l’Italia è ultima in Europa nella dimensione della partecipazione economica e per reddito da lavoro stimato, mentre è 20° in termini di parità salariale per lavori simili. È dunque la dimensione lavorativa quella che sintetizza maggiormente le difficoltà dell’Italia in termini di parità di genere, con il dato sul reddito da lavoro che attesta l’Italia al 107° posto globalmente (il valore medio in dollari è di 54,480$ per gli uomini e 29,990$ per le donne) – dato, come visto, in linea con il ranking proposto dall’EIGE.
Per agire efficacemente nel colmare il divario di genere che ci allontana dai Paesi maggiormente avanzati è necessario intervenire ben prima dell’ingresso sul mercato del lavoro, concentrando l’attenzione già nella fase scolastica e universitaria, dove le diseguaglianze iniziano a sorgere fino a cristallizzarsi. Sebbene in Italia esista un gap a sfavore degli uomini nell’istruzione a livello generale (le donne, infatti, sono in media più istruite degli uomini – nell’ultimo anno le laureate hanno rappresentato il 59,7% del totale – e registrano performance migliori, a tutti i livelli), tale divario si ribalta se si considerano i percorsi di studio scelti da ragazze e ragazzi. È in effetti la mancanza di studentesse nei percorsi STEM e nei sempre più importanti percorsi di formazione in ICTs che determina un forte divario tra le/i giovani – divario che si riflette direttamente sul mercato del lavoro, considerando la forte richiesta di questi profili professionali e l’elevata retribuzione connessa. In questo senso, non sorprende che, se da un lato il tasso di occupazione femminile è di molto cresciuto negli ultimi trent’anni, dall’altro continua a prevalere il fenomeno della segregazione occupazionale, che vede uomini e donne seguire differenti percorsi di carriera, con quest’ultime relegate in posizioni non di potere (segregazione verticale) e impegnate in settori e professioni che riproducono gli stereotipi di genere, con una differente concentrazione del genere femminile e maschile in determinati ambiti professionali (segregazione orizzontale).
Considerando invece quanto accade in seguito alla conclusione degli studi, sebbene l’occupazione femminile sia cresciuta nei decenni scorsi, non si può non guardare al dato attuale entusiasticamente, con solo il 51% delle donne occupate (contro il 69% degli uomini) – un valore assimilabile a quanto accadeva prima dell’avvento della pandemia da Covid-19. Allora, infatti, l’occupazione femminile toccava il 50%, contro il 68% di quella maschile, mentre successivamente al 2019 il tasso di inattività femminile è aumentato più ripidamente di quello maschile, facendo introdurre il termine “she-cession”, enfatizzante la recessione dovuta alla pandemia che ha colpito più duramente settori a prevalenza femminile. Guardando i dati si nota inoltre come il tasso di part-time femminile sia cresciuto costantemente fino al 2020, arrivando a toccare il 35%, contro circa il 9% degli uomini. Successivamente, si è potuto osservare un netto calo nel ricorso a questa tipologia contrattuale, probabilmente dovuto ad un maggiore ricorso allo smart-working che, permettendo una maggiore conciliazione tra gli impegni privati e lavorativi, riduce la necessità di stipulare contratti con orario ridotto. Ciò mette in luce la relazione esistente tra il carico di cura e impegni familiari e la partecipazione al mercato del lavoro. I dati, infatti, mostrano che quando le donne fuoriescono dal mercato del lavoro, lo fanno anche perché su di loro ricade l’onere di essere le caregiver primarie, basti pensare che quasi il 73% delle 61 mila persone che hanno presentato dimissioni presentate nei primi 3 anni di vita del/la figlio/a è costituito da donne. Molto spesso, poi, si tratta anche di una scelta anche economica, data dalla minor retribuzione femminile, che rende più probabile che sia la donna, all’interno di una coppia genitoriale, a rinunciare di lavorare per potersi prendere cura della famiglia. Questo fenomeno colpisce maggiormente le donne del Mezzogiorno, che risultano essere le più svantaggiate in termini assoluti, considerando il tasso di occupazione inferiore di più di 30 punti percentuali rispetto agli uomini; inoltre, le donne con figli nella fascia d’età 6-17 anni raggiungono un tasso di disoccupazione del 15,8% (contro l’8,3% degli uomini) ed un tasso di inattività del 38,3% (contro il 16,2% degli uomini). Riassumendo, risulta evidente il gender gap: le donne hanno un tasso di occupazione più basso, trovano meno lavoro e tendenzialmente sono più soggette a fuoriuscire dal mercato del lavoro stesso.
Considerando il fenomeno della segregazione verticale, ossia la sottorappresentazione ai più alti livelli dirigenziali e manageriali, anche in questo caso il gap risulta particolarmente evidente: le donne rappresentano solamente il 17% del totale delle posizioni dirigenziali nel settore privato (percentuale che sale al 33% se si considera tutto il mercato del lavoro) e il 52% delle posizioni impiegatizie (57% se si considera il mercato nella sua totalità). Inoltre, nel settore privato, la distribuzione di genere tra gli inquadramenti differisce sostanzialmente in base alla funzione di appartenenza: le donne manager (dirigenti e quadro) sono più diffuse nelle funzioni di Auditing, Risk Management, Legal, Area Tecnica & Ricerca e Sviluppo, Risorse Umane e Organizzazione, Marketing e Comunicazione. Prendendo in considerazione le posizioni apicali, si deve ricordare come, con la Legge Golfo-Mosca prima, e con la L. 160/2019 poi, il legislatore abbia voluto assicurare una presenza bilanciata di entrambi i generi negli organi di amministrazione e controllo delle imprese quotate. Ebbene, per effetto della normativa, nel 2022 si è raggiunta la percentuale del 42,9 di donne nei CdA. Di certo un buon risultato, che, però, cela un dato meno confortante: la larga maggioranza delle donne ricopre ruoli non esecutivi, mentre la presenza femminile nei ruoli esecutivi è estremamente ridotta (il 15,9% circa sul totale). Tra queste ultime, inoltre, si deve sottolineare come le amministratrici delegate rappresentino solo il 2%, dato che evidenzia l’esistenza di un persistente soffitto di cristallo.
Infine, nonostante l’esistenza di una serie di caratteristiche – individuali e aziendali – che possono spiegare il motivo per cui di fatto i salari, in media, siano divergenti, analisi tecniche più approfondite dimostrano come spesso il differenziale salariale esistente sia riconducibile a mera discriminazione. È infatti cruciale riuscire a scomporre quale parte di divario salariale è spiegato da caratteristiche oggettive e quale invece non lo è, evidenziando quindi la porzione potenzialmente imputabile a discriminazione salariale di genere. Guardando al gender overall earnings gap, ovvero il divario retributivo di genere complessivo derivante dalla differenza tra il salario annuale medio percepito da donne e uomini, questo si attesta per l’Italia al 43%, posizionandosi al quarto posto tra i divari più alti in Europa, dopo Paesi Bassi, Austria e Svizzera. Considerando i dati riportati dal rapporto “Gender pay gaps in the European Union – a statistical analysis”, pubblicato nel 2021 da Eurostat, risulta che l’Italia è uno dei Paesi dell’Unione Europea che presenta la differenza tra differenziale non corretto per le caratteristiche osservabili individuali e collettive (5,5%) e la differenza salariale non spiegata (10,4%) maggiore (-4,9%), con solo il Lussemburgo (-7,6%) e la Romania (-9,6%) che ottengono risultati peggiori. Inoltre, l’Osservatorio JobPricing, che monitora le retribuzioni del settore privato (escludendo sanità e istruzione private), ha registrato, per l’anno 2022, un pay gap calcolato sulla RAL annuale in Full Time Equivalent (FTE) pari all’8,7%, che arriva al 9,6% considerando la Retribuzione Globale Annua (RGA), comprensiva cioè della parte variabile. Sintetizzando, è come se le lavoratrici italiane iniziassero a percepire uno stipendio solamente il 2 febbraio, lavorando regolarmente dal 1° gennaio – in termini monetari, significa un gap di circa 2.700 € lordi sulla RAL e di circa 3.000 € sulla RGA. I pay gaps, però, non sono tutti uguali: guardando alle famiglie professionali, il pay gap più alto si registra nell’area delle vendite (23,8%), mentre esiste un divario a favore delle donne nell’area acquisti, logistica e supply chain (- 4,3%). Considerando i settori dove il divario salariale di genere è maggiormente presente, invece, troviamo quello finanziario (17,7%) e dei servizi (13,1%), mentre i settori delle utilities (-8,6%) e dell’edilizia (- 15,2%) registrano un differenziale a favore delle donne, dato probabilmente dovuto dalla composizione occupazionale di questi due settori, in cui i ruoli impiegatizi sono coperti da donne mentre i ruoli operai da uomini. Infine, il pay gap aumenta al crescere dell’età: in tutte le classi di età i lavoratori guadagnano più delle lavoratrici, fino a raggiungere il 15,9% nella coorte 55-64 anni. Questo fenomeno è dovuto a diversi fattori, tra cui la c.d. child penalty che scontano le donne, ovvero una “penalità” salariale dovuta alla maternità. Infatti, i dati rilevano che una lavoratrice al primo figlio, nel primo periodo, arriva a perdere anche l’80% dello stipendio in confronto a una collega senza figli; dopo i primi due anni dalla nascita, la differenza si attesta attorno al 40%, per poi crescere gradualmente. Ciò fa sì che, con un primogenito di 15 anni, la lavoratrice madre abbia uno stipendio più basso del 50% rispetto ad una collega senza figli, con il gap che si rivela doppiamente penalizzante, in quanto questi effetti non sono osservati tra i lavoratori padri.
Ulteriori dati sconfortanti provengono dall’analisi delle percezioni delle lavoratrici, raccolte dall’indagine annuale “Salary Satisfaction Report” dell’Osservatorio JobPricing: complessivamente, le donne sono meno soddisfatte del loro pacchetto retributivo rispetto ai colleghi maschi, con un gap di 0,6 punti. Nonostante l’insoddisfazione delle lavoratrici sia marcata in tutte le componenti rilevate, le dimensioni che registrano un divario maggiore (0,7 punti) sono quelle relative alla conoscenza delle procedure aziendali per il riconoscimento dei meriti e alla percezione di essere retribuite secondo il grado di contributo al raggiungimento degli obiettivi aziendali. Se si considera l’ambito lavorativo tech, oggetto del report “Tech: (non) è un lavoro per donne”, nato per indagare la percezione delle donne nel settore, e pubblicato da IDEM e SheTech nel febbraio 2022, troviamo percezioni in linea con quanto anticipato, con l’86,1% delle rispondenti (su un campione di più di 600 lavoratrici) ritiene di essere pagata meno rispetto ai colleghi uomini e, a parità di caratteristiche, di fronte ad una promozione l’84% delle donne pensa che un uomo abbia più possibilità di essere promosso. Infine, le lavoratrici risultano avere priorità diverse rispetto agli uomini al momento di valutare proposte lavorative, valutando l’importanza di determinati indicatori diversamente dai colleghi: ad esempio, le prime ritengono maggiormente importante la flessibilità oraria (il 75,1% delle lavoratrici lo considera “molto importante” contro il 61,2% degli uomini), il pacchetto benefit/welfare (è “molto importante” per il 50,2% delle donne contro il 38,3% dei lavoratori) e i percorsi di formazione e training (il 64,7% delle lavoratrici lo ritiene “molto importante”, mentre lo è solo per il 52,8% dei colleghi uomini).
In conclusione, come si è avuto modo di vedere, sebbene timidi passi in avanti siano stati fatti nel corso degli anni, non si può annunciare un sostanziale miglioramento delle condizioni femminili nel mercato del lavoro – complice la pandemia che ha avuto un impatto maggiormente negativo su chi già si trovava in posizioni più vulnerabili e precarie, come le donne. Il tutto rientra in un trend non solo italiano, ma europeo e globale di rallentamento nella chiusura del gap di genere, con le ultime rilevazioni del World Economic Forum che segnalano che serviranno ancora 131 anni per colmare il divario di genere a livello globale. Raggiungere l’uguaglianza fra i generi e colmare il gap tuttora persistente non risponde solamente ad esigenze etiche e di giustizia sociale, ma anche di intelligenza economica: da questa prospettiva, chiudere il divario di genere significherebbe di fatto accorciare la disuguaglianza e conseguentemente migliorare le condizioni di crescita economica e produttività, in termini di PIL e di tassi di occupazione, di crescita dell’innovazione e miglioramento delle performance finanziarie.
Per poter ottenere risultati concreti è necessaria un’azione condivisa da parte della normativa, nazionale e sovranazionale, e di tutti i livelli della società civile. Gli interventi legislativi non sono però sufficienti, da soli, è necessario che questi vengano accompagnati da un cambiamento culturale che affronti strutturalmente il tema della discriminazione di genere – un cambiamento che può partire da chiunque decida di ricoprire il ruolo di agente di cambiamento. Certamente le imprese possono essere promotrici di tale cambiamento attraverso iniziative interne di formazione e sensibilizzazione, l’introduzione o la modifica di policy in senso inclusivo e la misurazione puntuale del fenomeno del gender gap. Proprio il tema della misurazione è decisivo, in quanto rende tangibile la discriminazione e permette di trasformare il suo superamento in un obiettivo strategico “azionabile” con i consueti strumenti di gestione manageriale. In questo senso non si può che accogliere con grande favore iniziative come la Certificazione della Parità di Genere sui luoghi di lavoro, e il suo derivante strumento di misurazione dettato dalle linee guida UNI/PDR 125:2022 o dagli strumenti di misurazione proposti da IDEM | Mind The Gap – approcci che hanno il potenziale di cambiare le cose, se chi ricopre posizioni di leadership all’interno delle imprese vorrà cogliere l’opportunità di farlo concretamente.
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