Nudge per l’inclusione: il contributo delle scienze comportamentali per creare organizzazioni più inclusive

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Come prendiamo decisioni?
Un esempio da una questione di vita o di morte

L’11 settembre del 2001 è una data impossibile da dimenticare, per chi l’ha vissuta. Anzi. Facciamo un esperimento. Se avevate più di 10 / 12 anni all’epoca, provate a pensarci un attimo: come avete scoperto quello che era accaduto dall’altra parte dell’oceano? Dove eravate e con chi? Da quale telegiornale l’avete appreso (per i più giovani: all’epoca non c’erano Social e Google era poco conosciuto)? Con chi ne avete parlato subito dopo? E’ probabile che la maggior parte di chi ha più di 30 anni abbia delle risposte incredibilmente nitide a queste domande. Che riesca quasi a rivivere mentalmente, quasi fotogramma per fotogramma, i primi istanti dopo gli attentati.

Per molti di noi si è trattato di un evento emotivamente sconvolgente, anche se accaduto a migliaia di chilometri di distanza. E quello che sappiamo della nostra memoria è che è affetta da un bias tale per cui tendiamo a fissare molto di più nel ricordo gli eventi con una forte valenza emotiva, rispetto a quelli meno carichi o neutri. Infatti, è del tutto probabile che non ci ricordiamo cosa abbiamo mangiato a pranzo una settimana fa.

Gli effetti di tutto ciò per chi viveva negli Stati Uniti all’epoca sono stati studiati negli ultimi due decenni nell’ambito delle scienze cognitive e comportamentali. Ad esempio, l’improvvisa fobia di prendere un aereo: nei mesi successivi, la paura che un attacco del genere potesse ripetersi ha portato una certa quota di persone a evitare di volare per paura di morire.

Solo che, nel paese che per gran parte della sua superficie è denominato non a caso “flyover country”, questa decisione ha avuto come precipitato immediato un aumento del 5% dei chilometri percorsi in auto. E, nei 12 mesi successivi agli attentati, ciò ha comportato un’impennata degli incidenti mortali, con un bilancio di circa +1.600 decessi sulle strade e sulle interstatali rispetto agli anni precedenti.[1]

In sintesi: una decisione presa da alcuni con le migliori intenzioni di evitare la morte, ha finito per causarla. Una decisione che, a ben pensarci, di razionale ha poco: l’aereo è da tempo il mezzo più sicuro in assoluto per spostarsi; gli incidenti stradali uccidono ogni anno 1,3 milioni di persone nel mondo;[2] l’incremento delle misure di sicurezza a terra e a bordo dopo l’11 settembre era piuttosto prevedibile rendesse altamente improbabili altri attacchi con quelle modalità (che, infatti, non si sono più ripetuti).

Eppure una serie di meccanismi e scorciatoie di pensiero automatiche e poco consapevoli, per lo studio delle quali – ironia della sorte – Daniel Kahneman avrebbe vinto il Premio Nobel per l’Economia l’anno successivo, hanno cospirato verso una decisione del tutto irrazionale. Le persone che hanno scelto l’auto invece dell’aereo sono state vittime, ad esempio, della cosiddetta euristica della disponibilità che tende ad associare la facilità con cui “ci viene in mente” un possibile accadimento alla probabilità o frequenza con cui si verifica; o, ancora, il bias dell’illusione di controllo e di overconfidence, che ci portano – da un lato – a credere di poter esercitare un controllo sul nostro destino molto maggiore di quanto non abbiamo in realtà (es.: nel caso di specie, si sottovalutano sistematicamente gli effetti dei comportamenti degli altri sulla strada) e – dall’altro lato – ad avere una fiducia ingiustificata nelle nostre abilità (es.: è celebre lo studio che dimostra come 2 automobilisti su 3 si ritengano “migliori della media” alla guida… cosa statisticamente impossibile![3])

Decisioni e inclusione: quando qualcosa va (terribilmente) storto

Se meccanismi inconsci e irrazionali come quelli descritti sopra entrano in gioco in questioni letteralmente di vita o di morte, non è difficile immaginare quale possa esserne l’effetto in termini di discriminazioni più o meno inconsapevoli che si generano quotidianamente all’interno delle organizzazioni.

Alcune evidenze di ricerca, in questo senso, sono stranianti da quanto sembrano assurde: ad esempio, il 60% dei CEO negli USA è più alto di 1.85 m. Ma nella popolazione maschile generale solo il 14% delle persone lo è. Ci troviamo chiaramente di fronte all’effetto di un bias di preferenza sistematica e del tutto inconscia verso le persone alte, che vengono automaticamente associate – per ragioni in parte di origine evoluzionistica, in parte culturale – a tratti ritenuti desiderabili per un leader come autorità, visibilità e dominanza.[4]

Ancora, in uno studio controllato condotto all’Università di Standford è emerso che lo stesso identico profilo biografico-professionale da Venture Capitalist valutato da due gruppi indipendenti di persone, riceveva giudizi sistematicamente differenti se veniva presentato come quello di una donna (la realmente esistente Heidi Roizen) o di un uomo (quello di Howard Roizen, puramente di fantasia). Nello specifico, seppur entrambi venissero valutati come “estremamente competenti”, ad Heidi – a differenza di Howard – venivano attribuiti tratti di “eccesso di assertività”, “aggressività” ed “egoismo”, che la portavano a essere ritenuta una persona “con cui non vorrei collaborare e che non assumerei”.[5]

Uno degli ambiti, poi, dove gli effetti dei bias inconsci sono più pervasivi e insidiosi nel determinare effetti discriminatori all’interno delle organizzazioni, tra cui il glass-ceiling, è quello della valutazione delle performance. Una serie di studi recenti sulle modalità e sul linguaggio con cui i manager danno feedback ai propri collaboratori e alle proprie collaboratrici, ad esempio, ha mostrato come ci siano una serie di differenze sistematiche tra uomini e donne.

Innanzitutto, sebbene lo chiedano con una frequenza analoga, le donne ricevono il 20% in meno di feedback rispetto agli uomini, soprattutto quando si tratta di conversazioni delicate o difficili per qualche ragione.[6] Ma anche quando il feedback arriva, la sua formulazione e gli ambiti su cui insiste tendono a essere sistematicamente diversi tra uomini e donne: mentre quello rivolto alle persone di genere maschile tende a essere più focalizzato sul risultato di attività specifiche, orientato a suggerire azioni di miglioramento e a ragionare in termini di potenziale, quello rivolto alle persone di genere femminile tende a contenere più frequentemente riferimenti a tratti di personalità, specie se negativi, e a ragionare in termini di performance passata.[7]

Come mitigare gli effetti dei bias?

Euristiche, stereotipi, pregiudizi e conseguenti bias sono effetti collaterali dell’essere umani: prodotti adattivi della selezione naturale e culturale necessari per permetterci di prendere decisioni rapide che ottimizzino il più possibile le probabilità di sopravvivenza (a volte fallendo, come abbiamo visto), a fronte di risorse cognitive estremamente limitate (attenzione, capacità di elaborazione, memoria, motivazione…) e di ambienti ad alto rischio.

Le direttrici di azione percorribili per ridurre il potenziale discriminatorio di tali processi – peraltro in parte individuali e in parte di gruppo – sono molteplici, ma occorre sottolineare come il cambiamento delle associazioni implicite che portano alla stereotipizzazione e allo sviluppo di pregiudizi sia estremamente difficile, time-consuming e a potenziale rischio di effetti di backfiring. E’ noto, ad esempio, che tentare di eliminare gli stereotipi facendoli emergere a consapevolezza e tentando di sopprimerli coscientemente rischi paradossalmente di rinforzarli, un effetto noto come “stereotype rebound”.[8]

Nell’ambito delle strategie di cambiamento comportamentale che le organizzazioni possono implementare per lavorare al proprio interno per migliorare l’inclusività dei processi decisionali – in particolare a livello manageriale – particolarmente interessante e promettente è lo strumento dei nudge per l’inclusione.

Il riferimento è il concetto di nudge elaborato dal Premio Nobel per l’Economia 2017 Richard Thaler e pubblicato nell’omonimo saggio “Nudge. La spinta gentile[9]. Si tratta di un modello di intervento comportamentale che parte proprio dall’assunto di razionalità limitata, prende in considerazione il peso e la rilevanza delle scorciatoie di pensiero e dei bias studiati da Kahneman e Tversky e sfrutta questi stessi processi mentali per spingere gentilmente i processi decisionali – e, quindi, i comportamenti – verso una direzione desiderata. L’avverbio “gentilmente” fa riferimento a due peculiarità degli interventi di nudging: preservano la libertà di scelta e non implicano l’introduzione di incentivi o sanzioni economiche.

Gli interventi di nudging sono ormai da tempo ampiamente utilizzati in diversi campi che richiedono di influenzare il comportamento delle persone: dal marketing, alla sostenibilità, dal miglioramento della salute fino alle public policy. Ad esempio, negli ultimi 15 anni si sono moltiplicati i cosiddetti Behavioral Insight Team che lavorano in staff ai governi di tutto il mondo (anche in Italia, seppur in fase sperimentale) per applicare tecniche del genere all’influenza sui comportamenti dei cittadini.

Uno dei molteplici principi su cui – attraverso appositi framework di analisi e ideazione – è possibile costruire nudge è quello del “Make it easy”. Dai risultati delle behavioral science sappiamo, ad esempio, che più un comportamento è semplice da attuare, automatico e richiede poco sforzo, più è probabile che le persone lo mettano in atto. Sappiamo anche che decidere è in generale un’operazione faticosa e che, in certe situazioni, entra in gioco il cosiddetto bias dello status quo, ossia la tendenza a “lasciare le cose come stanno”, soprattutto quando siamo incerti su quale scelta compiere, non abbiamo voglia di impegnarci in una decisione in un certo momento oppure preferiamo affidarci a qualcuno che decida per noi.

E’ da questi principi, ad esempio, che discende un nudge che tutti conosciamo e che ha permesso – da solo – di risparmiare miliardi di litri d’acqua agendo in maniera sottile sui nostri comportamenti. Parliamo del famoso cartello – presente ormai in ogni camera d’albergo – a gettare a terra l’asciugamano se desideriamo che venga sostituito oppure a riporlo sul solito supporto (opzione di default) se invece scegliamo di tenerlo un altro giorno. Sfruttando l’automatismo (Make it easy!) di riporre l’asciugamano sul porta-asciugamani e di non pensarci più si spinge gentilmente verso un comportamento sostenibile.

La domanda a questo punto, naturalmente, è: come possiamo applicare questa tecnica di intervento per promuovere comportamenti più inclusivi?

Senza alcuna pretesa di esaustività possiamo raggruppare i Nudge per l’inclusione in 3 categorie, in funzione dell’obiettivo che si pongono.

Nudge per la creazione di consapevolezza rispetto alla presenza di un bias

Si tratta di interventi che mirano a identificare e rendere evidenti pattern che possono far sospettare la presenza di un bias che sta agendo sotto soglia di coscienza, individuale od organizzativa.

Nel caso dei feedback di cui sopra, ad esempio, un semplice nudge alla portata di ogni manager consiste nel preparare in forma scritta, per punti, i feedback da dare a ciascun collaboratore e a ciascuna collaboratrice. Dopo averli redatti e prima di andare a condividerli, l’intervento prevede che l’autore evidenzi con due colori differenti i feedback “sulla prestazione” e i feedback “sulla personalità”. A questo punto, grazie alla salienza offerta da questo processo, è possibile confrontare a colpo d’occhio tutti i collaboratori per identificare e correggere eventuali sbilanciamenti sistematici che possono avvenire non solo nei confronti delle donne, ma anche di altre categorie di persone.

Un principio analogo si può applicare anche nei fondamentali momenti di decisione rispetto a promozioni e avanzamenti di carriera. Definire tutte le persone che paiono meritevoli di una crescita e poi evidenziare, attraverso un codice di colori, alcune caratteristiche “a rischio discriminazione” (il genere naturalmente, ma anche l’essere o meno genitore, appartenere a una minoranza, avere certi tratti di personalità, etc…) consente di aumentare la probabilità di identificare eventuali pattern che hanno agito a livello implicito.

Nudge per l’interruzione di un bias mentre si manifesta

Questa famiglia di interventi mira a interrompere o depotenziare un bias prima che possa determinare degli effetti discriminatori o tentando comunque di mitigarne gli effetti.

Ad esempio, è noto dalla letteratura che – mediamente – durante una conversazione le donne vengono interrotte quasi 3 volte più spesso degli uomini, sia da uomini che da altre donne.[10] Chiaramente questo tipo di pattern, laddove presente, crea uno squilibrio nei turni di parola, una disparità nelle possibilità di ascolto e chiarimento del pensiero, così come nella percezione di leadership. Un semplice nudge che può interrompere il bias, basato sul principio del “Make it easy”, è quello di definire un segnale convenzionale semplice e socialmente accettato per “interrompere l’interruttore” e permettere a chi stava parlando di riprendere. In alcune aziende prende la forma di un campanello, che viene posizionato al centro del tavolo riunioni e che chiunque è invitato a utilizzare in caso noti un collega o una collega che viene interrotta da altri. In altre può trattarsi di una semplice parola chiave o espressione convenzionale da allenarsi a dire sistematicamente ogniqualvolta ve ne sia la necessità (es.: “Vorrei finire di sentire ciò che ha da dire Silvia”).

Il concetto di “accettabilità sociale” è particolarmente importante quando si parla di comportamenti mirati a scardinare potenziali fenomeni discriminatori. Come affrontare, ad esempio, il tema delle battute sessiste o del linguaggio aggressivo dalla prospettiva di chi vi assiste come terza parte? Sappiamo infatti che – a prescindere da ciò che una persona pensi realmente – è molto difficile resistere alla pressione sociale che induce a conformarsi e a far finta di nulla, quando non a indulgere in una risatina connivente che funge da meccanismo di rinforzo positivo. Anche in questo caso un possibile nudge consiste nell’introdurre una convenzione sociale, semplice e poco rischiosa da applicare, per segnalare a un collega che una certa battuta non è appropriata. In alcune organizzazioni, ad esempio, abbiamo introdotto una sorta di “cartellino” sulla scorta di quelli degli arbitri di calcio da sfoderare per far notare con “chiarezza gentile” che occorre modificare il linguaggio.

Nudge per prevenire i bias

L’ultima classe di Nudge per l’inclusione è costituita da interventi o strumenti che hanno lo scopo di prevenire i bias ed evitare che determinino conseguenze comportamentali od organizzative discriminatorie.

Ad esempio, alcune ricerche hanno dimostrato che – a fronte di un annuncio di lavoro – le donne tendono a essere più severe con se stesse nel valutare la propria adeguatezza rispetto ai requisiti richiesti. In media se un uomo prende in considerazione la candidatura con un 50% di requisiti rispettati, una donna propende a candidarsi quando questa percentuale sale all’85%.[11] Questo significa che job posting con lunghi elenchi di requisiti posti tutti sullo stesso livello di importanza tenderanno, giocoforza, ad attrarre più candidature maschili che femminili. In questo senso, allora, un nudge per ribilanciare l’attrattività della posizione consiste nel perimetrare meglio i requisiti “necessari” e quelli “opzionali”, scrivendo esplicitamente che non è necessario rispettarli tutti per essere presi in considerazione.

Tornando al tema dei bias in fase di valutazione, un nudge interessante – sperimentato ad esempio in Nestlé – consiste nel cambiare l’opzione di default. Se tipicamente l’opzione di default è che le persone non siano pronte per essere promosse (ad eccezione di coloro che lo sono e che vengono scelte dal manager di riferimento), l’inversione dell’opzione di default comporta che si ritengano tutti e tutte pronti per la promozione che stia al manager argomentare “perché no” per ciascuna. L’efficacia di questo intervento risiede nello sforzo intenzionale (da “pensiero lento” nei termini di Kahneman) necessario a spiegare in maniera credibile e sostanziata le ragioni alla base della scelta di non assegnare una promozione.[12]

In sintesi

Per concludere, abbiamo visto come le Scienze comportamentali in generale e l’approccio del nudging in particolare possano dare un contributo importante a mitigare alcune delle cause all’origine della discriminazione, che si situano spesso nei micro-comportamenti quotidiani e che – sovente – avvengono al di fuori della sfera di consapevolezza delle persone che li perpetrano.

Le “spinte gentili”, naturalmente, non sono “l’arma di fine di mondo” del Dottor Stranamore di Kubrick ed è importante sottolineare come la loro efficacia dipenda da un’accurata analisi del contesto e da un’ideazione basata su principi scientificamente fondati, attraverso un approccio sperimentale.

Tuttavia si tratta di una tecnica di cambiamento comportamentale con un ottimo rapporto tra costi e complessità di implementazione, tendenzialmente molto bassi, e benefici, che l’approccio sperimentale si propone nativamente di cercare di misurare in maniera il più possibile rigorosa.

[1] Gigerenzer G. (2004) Dread risk, September 11, and fatal traffic accidents. Psychological Science, 15, 286–287.

[2] https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/road-traffic-injuries

[3] Williams, A. F. (2003). Views of US drivers about driving safety. Journal of Safety Research34(5), 491-494.

[4] Blaker, N. M., Rompa, I., Dessing, I. H., Vriend, A. F., Herschberg, C., & Van Vugt, M. (2013). The height leadership advantage in men and women: Testing evolutionary psychology predictions about the perceptions of tall leaders. Group Processes & Intergroup Relations16(1), 17-27.

[5] Chang, E. H., & Milkman, K. L. (2020). Improving decisions that affect gender equality in the workplace. Organizational Dynamics49(1), 100709.

[6] Lean In (2016). Women in the Workplace Report 2016

[7] Correll, S. J., Weisshaar, K. R., Wynn, A. T., & Wehner, J. D. (2020). Inside the black box of organizational life: The gendered language of performance assessment. American Sociological Review85(6), 1022-1050.

[8] Macrae, C. N., Bodenhausen, G. V., Milne, A. B., & Jetten, J. (1994). Out of mind but back in sight: Stereotypes on the rebound. Journal of personality and social psychology67(5), 808.

[9] Thaler, R., Sunstein C. (2012). Nudge. The final edition. (Penguin)

[10] Hancock, A. B., & Rubin, B. A. (2015). Influence of communication partner’s gender on language. Journal of Language and Social Psychology34(1), 46-64.

[11] Hewlett Packard, Studio interno riservato

[12] Nielsen T., Kepinski L. (2020), Inclusion Nudges for Leaders, Inclusion Institute

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Autore: Alex Zanon

Change Management & Behavioral Science Manager @ SCS Consulting

Specializzato nell’applicazione delle Scienze comportamentali in ambito organizzativo, si occupa da oltre 10 anni di progetti di Change Management per aziende nazionali e multinazionali, focalizzandosi in particolare sugli aspetti di trasformazione comportamentale e culturale in relazione a Sostenibilità e Diversity & Inclusion. Come formatore e speaker il suo campo di intervento si concentra sullo sviluppo di competenze manageriali di autoconsapevolezza cognitiva ed emotiva a supporto del Decision Making, con particolare focus sull’utilizzo di tecniche di nudging e architettura delle scelte. Certified Member di GAABS – The Global Association of Applied Behavioral Scientists e co-fondatore e Presidente di AICANBE – Associazione Italiana di Choice Architecture, Nudging e Behavioral Economics. Collabora come Professore a contratto per diversi Atenei – tra cui l’Università di Urbino e l’Università IULM – ed è docente di Behavioral Aspects of Project Management per diversi Executive Master della Scuola di Formazione Manageriale Professional Datagest.

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